La malattia durante il preavviso, cosa accade? Il ruolo dei contratti collettivi

Il preavviso è il periodo di tempo che intercorre tra la comunicazione di dimissioni o licenziamento e l’effettiva cessazione del rapporto di lavoro. Questo arco temporale ha una funzione precisa: deve consentire sia al datore di lavoro che al lavoratore di organizzarsi e riorganizzarsi. Per l’azienda, il preavviso è utile al fine di individuare un sostituto e garantire la continuità operativa. Per il lavoratore, invece, rappresenta un periodo in cui si pianificano al meglio i passi successivi, come la ricerca di una nuova occupazione.

Il preavviso è disciplinato dai contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) e varia in base a fattori come il tipo di contratto, il livello contrattuale, l’anzianità lavorativa aziendale, etc. Generalmente, più lunga è l’anzianità, più ampio sarà il periodo di preavviso.

La malattia può complicare questa dinamica, generando domande e dubbi sulle sue conseguenze e su come il lavoratore possa tutelarsi. Cosa accade se il lavoratore si ammala durante il periodo di preavviso?

Un impiegato con cinque anni di anzianità in azienda decide di rassegnare le dimissioni. Il contratto collettivo prevede un periodo di preavviso di un mese. Dopo due settimane, però, l’impiegato si ammala e il medico certifica una prognosi di dieci giorni. Durante questo periodo, il conteggio del preavviso si interrompe. Una volta terminata la malattia e rientrato in salute, l’impiegato dovrà completare i restanti quindici giorni di preavviso, riprendendo da dove si era fermato.

Un operaio licenziato dall’azienda riceve una comunicazione con un preavviso di tre settimane, come previsto dal suo CCNL. Tuttavia, dopo una settimana, sopravviene una malattia certificata di quattordici giorni. In questo caso, il preavviso rimane sospeso per tutta la durata della malattia. Al termine della prognosi, l’operaio dovrà completare le due settimane di preavviso restanti.  Il rapporto di lavoro non può cessare durante una sospensione giustificata!

I giorni di malattia non si sovrappongono semplicemente al preavviso, ma ne sospendono il decorso. Questo significa che il conteggio dei giorni di preavviso si interrompe per tutta la durata della malattia certificata e riprende solamente una volta che il lavoratore è guarito.

È importante sottolineare che le modalità con cui il preavviso viene sospeso dalla malattia possono variare leggermente in base al contratto collettivo applicato. Alcuni CCNL prevedono disposizioni specifiche o tempistiche diverse, ma il principio rimane invariato: la malattia certificata interrompe il conteggio del preavviso sia che si tratti di dimissioni che di licenziamento.

Questo sistema di tutele è fondamentale per salvaguardare il lavoratore in un momento delicato come quello della cessazione del rapporto di lavoro. Il preavviso non è semplicemente un “periodo di tempo” tra un rapporto lavorativo e il successivo, ma un meccanismo che permette a entrambe le parti (datore di lavoro-lavoratore) di organizzarsi.

Conoscere le “regole” è fondamentale. Ogni caso può avere le sue particolarità, ma il principio resta lo stesso: la malattia non cancella il preavviso, lo mette semplicemente in pausa.

Durante A.M. Cristina




Una sentenza che tutela il diritto di difesa: conta l’invio, non la ricezione.

Nel mondo del diritto del lavoro, ogni dettaglio può fare la differenza. E la Cassazione, con l’ordinanza n. 2066 del 29 gennaio 2025, ha appena chiarito un principio fondamentale: il termine di 5 giorni, per la difesa disciplinare del lavoratore, non si riferisce alla ricezione da parte del datore di lavoro delle giustificazioni del lavoratore ma alla spedizione, all’invio. Un dettaglio? No! Una sentenza che potrebbe cambiare le sorti di molti casi disciplinari e rimettere in discussione licenziamenti già avvenuti. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.

Il caso concreto: un licenziamento disciplinare ma una difesa non considerata. Un lavoratore viene licenziato per aver eseguito manovre imprudenti, con un mezzo aziendale, causando danni materiali. Decide di impugnare il licenziamento in tribunale, sostenendo che le sue difese, pur inviate nei termini previsti, erano state ricevute in ritardo dal datore di lavoro. La Corte d’Appello, però, respinge il suo ricorso.  Tralasciando, per un attimo, il giustificato motivo oggettivo (l’imprudenza del lavoratore) che tratteremo in separato luogo, la Cassazione ha visto la questione sotto una luce diversa.

L’art. 7 della Legge 300/1970 (lo Statuto dei Lavoratori) prevede un iter ben preciso quando un’azienda intende sanzionare un dipendente:

  1. Comunicazione → il datore di lavoro deve comunicare, in forma scritta, al dipendente le accuse in modo chiaro. Esempio: danno per colpa effettiva del lavoratore per violazione di regole basilari di prudenza ed attenzione e non per fatti accidentali o esterni o che, per quelle attività, doveva essere sorvegliato da un superiore, etc.
  2. 5 giorni di tempo →il lavoratore può inviare la propria giustificazione in maniera chiara e scritta entro questo termine ovviamente a seguito della comunicazione scritta del datore di lavoro nella quale viene esplicitata, per esempio, grave imprudenza della mansione affidata.
  3. Nessuna sanzione anticipata →il datore non può procedere prima della scadenza dei 5 giorni per la difesa del lavoratore.

Ma i 5 giorni si riferiscono alla data di ricezione o alla data di invio delle giustificazioni? E qui entra in gioco la recente sentenza della Cassazione. Il verdetto della Cassazione: conta l’invio, non la ricezione! La Suprema Corte ha chiarito che l’interpretazione corretta dell’art. 7 è la seguente: il lavoratore rispetta il termine di 5 giorni se le sue giustificazioni vengono inviate entro questo tempo, indipendentemente da quando vengono ricevute dal datore di lavoro.  Perché questa interpretazione? La norma tutela il diritto di difesa del lavoratore. Non si può far dipendere il diritto di difesa da eventuali ritardi nella ricezione da parte dell’azienda. Il principio di certezza del diritto impone di far riferimento a un elemento oggettivo e documentabile: la data di invio.   

Cosa cambia per aziende e lavoratori? Questa sentenza ha un impatto concreto sulle procedure disciplinari e sulle strategie difensive in ambito lavorativo.

I datori di lavoro devono controllare le date di spedizione, non solo quelle di ricezione, altrimenti rischiano di vedersi annullare un licenziamento se non considerano una difesa inviata nei termini; devono evitare sanzioni disciplinari prima della scadenza effettiva dei termini.

Per i lavoratori: l’invio delle giustificazioni sempre entro 5 giorni; devono conservare prova dell’invio, per esempio pec o raccomandata, e possono impugnare un licenziamento, se il datore di lavoro non ha considerato la difesa (legittima) perché ne è venuto a conoscenza dopo i termini di legge.

DURANTE A.M. CRISTINA




Pensioni, Quota103, Bonus Maroni 2025, conviene sì o no?

In questo articolo faremo il punto sul Bonus Maroni. Molti sono gli interrogativi, i dubbi, le perplessità…Se resto a lavoro, nonostante io sia un lavoratore prossimo alla anticipata, e prendo di più in busta paga, prenderò meno nella pensione in futuro, in quanto una quota dei contributi che avrebbero dovuto versare all’Inps, mi verrà data direttamente in busta paga? Conviene quel 10% circa in più? È lordo? È netto?

Escludendo chi, per sua libera scelta, vuole rimanere a lavoro, focalizziamoci un attimo sulle pensioni anticipate, oggetto del Bonus Maroni, in particolare su Quota 103.  

Chi ha un po’ di anni in più lo conosce come Bonus Maroni, dal nome del Ministro del Lavoro, ai tempi della sua prima introduzione, nel 2004/2005. Oggi è noto come “Incentivo per la prosecuzione dell’attività lavorativa” ed è pensato, come indica la denominazione, all’incentivo, per coloro i quali, pur avendo diritto ad andare in pensione con Quota 103 (anticipata flessibile) o per coloro che, pur avendo diritto ad accedere alla pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi (uomini) e 41 anni e 10 mesi  (donne) di contributi,  restano a lavoro.

Chi dovesse avere i requisiti per andare in pensione con le anticipate, e decidesse di continuare a lavorare, con questa adesione, potrebbe chiedere di avere i “suoi” contributi previdenziali in busta paga. Contributi pari al 9,19% per il settore privato, e pari al 8,85% per il pubblico, in linea di massima 10%. Si aspetta circolare applicativa INPS per maggior dettagli.

Sarà conveniente rimanere?  Ripercorriamo Quota 103 punto per punto.

La pensione anticipata flessibile può essere concessa se vengono soddisfatti i seguenti requisiti. Entro il 31 dicembre 2025: età minima 62 anni e almeno 41 anni di contributi, raggiungibili anche attraverso il cumulo ossia sommando i versamenti accreditati presso differenti gestioni previdenziali (si considerano i soli fondi amministrati dall’Inps, con esclusione delle casse dei liberi professionisti).

Una volta raggiunti i requisiti per Quota 103, la decorrenza è posticipata per le finestre mobili di attesa, le quali, per chi maturerà i requisiti entro il 31 dicembre 2025, saranno pari a: 7 mesi per i lavoratori del settore privato; 9 mesi per i dipendenti pubblici. Si tratta dunque delle stesse tempistiche di attesa previste per chi ha maturato i requisiti nel corso del 2024 (le precedenti finestre di attesa, valide nell’ipotesi di perfezionamento delle condizioni della Quota 103 entro il 2023, sono rispettivamente pari a 3 ed a 6 mesi). Si ricordi il diritto alla cristallizzazione!

All’assegno pensione Quota 103, in caso di maturazione dei requisiti entro il 2023, viene applicato un massimale d’importo, corrispondente a 5 volte il trattamento minimo INPS (2.993,05 euro mensili lordi) fino al raggiungimento dell’età prevista per la pensione di vecchiaia ordinaria, stante alla data dello scrivente, 67 anni.

Per chi matura i requisiti per la pensione Quota 103 nel 2024, l’importo massimo erogabile è 4 volte il minimo (2.394,44 euro mensili lordi), in leggero rialzo per il 2025 (2.413, 60 euro mensili lordi).

Con Quota 103, la pensione verrà calcolata usando esclusivamente il sistema contributivo. Questo metodo di calcolo, basato sui contributi versati, di conseguenza sul montante contributivo e sull’età pensionabile (incide il coefficiente di trasformazione che differisce con l’età) è spesso sfavorevole. Vi sono, comunque, alcuni casi in cui la penalizzazione, rispetto al sistema di calcolo retributivo- misto (18 anni al 31 dicembre 1995, retributivo fino al 31 dicembre 2011, da quella data poi contributivo; no 18 anni al 31 dicembre 1995, retributivo fino al 31 dicembre 1995, indi poi contributivo) potrebbe risultare minima o nulla, e addirittura, vi sono, alcune ipotesi in cui tale calcolo potrebbe risultare più conveniente.

Considerando la proroga alle stesse condizioni, persisteràper il 2025, il divieto di sommare la pensione Quota 103 con i redditi da lavoro, tranne nel caso di compensi derivanti da lavoro autonomo occasionale (tetto massimo di 5.000 euro lordi all’anno).

Alla luce di tutto quello che concerne Quota 103, il beneficio, a favore di chi si trattiene al lavoro, nonostante il raggiungimento dei requisiti per la pensione anticipata flessibile, consiste in un esonerocontributivo. Nello specifico, viene meno ogni obbligo di versamento contributivo da parte del datore di lavoro della quota a carico del lavoratore, a decorrere dalla prima scadenza utile per il pensionamento anticipato prevista dalla normativa vigente.

La quota di contributi a carico del lavoratore viene corrisposta interamente in busta paga. In questo modo, il dipendente ottiene un bonus sullo stipendio, variabile in base alla retribuzione imponibile previdenziale. In pratica, la somma che normalmente viene trattenuta, a titolo di contribuzione a carico del lavoratore e versata all’Inps, viene erogata direttamente al lavoratore, come parte della sua retribuzione, risultando però non imponibili ai fini fiscali, quindi netta.

Alla luce di quanto esposto, è necessario valutare attentamente, i pro e contro, se avvalersi o meno dell’incentivo al trattenimento in servizio, in quanto la decontribuzione porterebbe in futuro ad un assegno pensionistico più magro.

DURANTE A.M. CRISTINA




Oneri contributivi, lavoro, pensioni, i tanti volti dello stesso problema

Gli oneri contributivi rappresentano una voce rilevante del costo del lavoro e sono una, fra le tantissime motivazioni, del dilagare del lavoro discontinuo, precario, in quanto le aziende sono alla ricerca di forme contrattuali meno onerose. Il costo della previdenza è sempre in aumento. Negli anni Settanta bastava un’aliquota inferiore al 20% per coprire tutte le prestazioni erogate dall’Inps, non solo le pensioni dunque. Oggi, nel caso del lavoro dipendente, occorre il 33% per le sole pensioni, senza peraltro poter assicurare l’equilibrio tra entrate e uscite.

Il “nostro” sistema pensionistico è fondato sul criterio della ripartizione, in maniera semplicistica: gli attivi al lavoro pagano le pensioni, confidando che ci saranno altri lavoratori che pagheranno, grazie ad un patto intergenerazionale garantito dallo Stato, le loro pensioni, quando verrà il loro turno. Ma gli attivi pagano gli oneri contributivi che finiscono nel calderone anche dell’assistenza. Sono in atto ampi processi di crisi: crisi del lavoro, crisi delle assunzioni, crisi demografica (pochi figli), crisi del mercato, crisi di riforme strutturali del lavoro, ed ecco che il numero degli occupati al lavoro diminuisce ed aumenta quello degli anziani, i quali vivono più a lungo. Sia chiaro: il finanziamento a capitalizzazione (i versamenti di ciascun lavoratore e i relativi rendimenti capitalizzati fornenti il montante su cui viene calcolata la pensione) non è la panacea a tutti i mali!

Nell’Europa continentale, i sistemi pensionistici obbligatori, generalmente a ripartizione, sono strettamente connessi agli assetti complessivi della finanza pubblica. Dalle trasformazioni demografiche, economiche ed occupazionali derivano non solo rischi di insostenibilità dei modelli previdenziali, a danno dei futuri pensionati italiani, soprattutto per coloro che hanno cominciato a lavorare a partire dal 1996 ma anche ostacoli all’ingresso nel mercato del lavoro della manodopera più giovane, tenuta a contribuire e ad assicurare – sempre nella logica della ripartizione – i flussi finanziari occorrenti al pagamento dei trattamenti in essere con quote crescenti reddituali.

Già nel 1993, il famoso Rapporto di Jacques Delors evidenziava che “il livello elevato degli oneri sociali si poneva come uno dei tanti ostacoli all’occupazione, esercitava un effetto dissuasivo alla stabilizzazione, favorendo “l’economia parallela”, incidendo particolarmente sull’occupazione delle piccole e medie aziende e, portando la delocalizzazione degli investimenti e delle attività”. A ciò si aggiunge una scarsa politica che non “aiuta” le aziende nelle assunzioni a più ampio respiro, cioè più stabili. Dulcis in fundo: il nodo della previdenza italiana che non divide l’assistenzialismo dalla previdenza vera e propria. Separare previdenza e assistenza, oltre a far chiarezza sulle diverse voci che compongono la spesa pensionistica, è una prova di equità per chi ha versato contributi e chi no. Si dovrebbe fare assistenzialismo diversamente! Separare assistenza e previdenza è propedeutico alla necessaria riforma del sistema PENSIONI, dichiara a gran voce la CONFIL.

Una corretta valutazione della spesa è fondamentale per capire come e dove agire. Una stima separata è necessaria sia nel confronto interno che europeo.  Determinare una differenziazione è utile per evitare quelle speculazioni sui numeri della previdenza che spesso sono usati in modo fuorviante e strumentale, chiosa il Segretario Generale della CONFIL Luigi Minoia.

Durante A. M. Cristina




Bilancio previdenziale, i veri numeri della spesa pensionistica

Le proposte Confil: pensione di garanzia e aumentare i coefficienti

Il segretario generale Confil Luigi Minoia ha partecipato a Roma alla presentazione del

12mo rapporto del bilancio del sistema previdenziale italiano illustrato dal presidente del Centro Studi e Ricerche “Itinerari Previdenziali” prof. Alberto Brambilla alla presenza del presidente della Camera dei Deputati Lorenzo Fontana.

“Si tratta – ha commentato il segretario generale della Confederazione Italiana Lavoratori – di una delle poche analisi veritiere della spesa pensionistica che va separata da quella dell’assistenza. Ci dice che l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil è dell’11,64 % al lordo dell’Irpef, che al netto si riduce addirittura all’8,47%, molto al di sotto della media europea. Il saldo tra entrate contributive Inps e spesa pensionistica vede un attivo di ben 42,5 miliardi.

È un valore che ci consente un’elaborazione strategica di una nuova prospettiva di welfare che coniughi sostenibilità con solidarietà. Per questa ragione la Confil propone una pensione contributiva di garanzia e l’aumento dei coefficienti di trasformazione per migliorare le prestazioni pensionistiche”.

Durante A.M. Cristina


RAPPORTO N.12 ANNO 2025, IL BILANCIO DEL SISTEMA PREVIDENZIALE ITALIANO. Il SEGRETARIO GENERALE DELLA CONFIL A ROMA: SE SI SEPARA L’ASSISTENZA DALLA PREVIDENZA SI POSSONO MIGLIORARE LE PENSIONI.

Bilancio Inps, pesa la spesa per l’assistenza




Dimissioni volontarie…? Elemento ostativo per fruizione Naspi, precisazioni.

La Naspi dura la metà delle settimane lavorate nei 4 anni precedenti. Se un lavoratore, per esempio, ha lavorato 4 anni consecutivi per lo stesso datore di lavoro, in caso di licenziamento ha diritto a 24 mesi di Naspi. In tal caso, il datore di lavoro deve versare ticket licenziamento. Il contributo è previsto dalla Legge Fornero in misura pari al 41 % del massimale Naspi (stabilito anno per anno dall’Inps) per ogni mese di durata del rapporto di lavoro.

 Se invece il dipendente dà le dimissioni, il datore non deve nulla. Ma se, dopo le dimissioni, il lavoratore trova subito un nuovo impiego, anche solo di poche settimane, al termine di quest’ultimo non può tornare a prendere i 24 mesi di Naspi. Per rendere effettivo il meccanismo di fruizione dell’ammortizzatore sociale, il nuovo lavoro deve durare almeno 13 settimane, altrimenti, le dimissioni precedenti resteranno un elemento ostativo alla Naspi. Questa nuova regola vale per chi presenta la domanda di Naspi entro i primi 12 mesi successivi alle dimissioni.

Durante A. M. Cristina




Coefficienti di trasformazione più basse nel 2025-2026, pensioni più basse

Le pensioni tornano a scendere. Chi avrà la decorrenza della pensione nel 2025, avrà diritto a un assegno pensionistico più basso rispetto a chi ha deciso di lasciare il lavoro entro la fine del 2024. Il ministero del Lavoro, di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze, ha pubblicato, sul proprio sito istituzionale (nella sezione pubblicità legale), il decreto direttoriale del 20 novembre, concernente la revisione biennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo, che aggiorna la Tabella A dell’allegato 2 della Legge n. 247/2007 e la Tabella A della Legge n. 335/1995.
Di cosa si tratta? Lo diremo in maniera semplicistica: il lavoratore, durante tutta la sua vita lavorativa, accantona ogni anno i contributi.  Questi, al momento del ritiro dal lavoro, vengono trasformati in pensione per mezzo dell’applicazione di coefficienti chiamati di trasformazione che variano in base all’età e periodicamente revisionati. L’ultima revisione c’è stata nel 2022, riferita al biennio 2023/2024.

Un esempio concreto. Un lavoratore di 67 anni con 400mila euro di contributi accantonati (c.d. montante contributivo) se fosse andato in pensione nel 2024, avrebbe avuto diritto a una pensione annua di 22.892 euro; di 22.432 euro annui invece nel 2025, con 460 euro in meno (circa 35 euro al mese) a parità di montante e di età.

Come si esegue in maniera semplice il calcolo: coefficiente di trasformazione anno 2024 5,723 %; coefficiente di trasformazione anno 2025 5,608 %.

  • montante x 5,723 % :13 = 1.760,92 euro (mensile pensione lordo)
  • montante x 5,608%: 13 =1.725, 54(mensile pensione lordo)

Durante A. M. Cristina




Art.19 del DDL Lavoro: Dimissioni per fatti concludenti, al via la nuova procedura con qualche criticità

Il DDL Lavoro, reintroduce, nel nostro ordinamento le dimissioni per fatti concludenti. L’art.19 del DDL integra l’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015. Il Legislatore dispone che, in caso di assenza ingiustificata protratta oltre i termini previsti dal CCNL o, in mancanza di previsione contrattuale, per un periodo superiore a 15 giorni, il datore di lavoro dà comunicazione all’Ispettorato del Lavoro che ha facoltà di effettuare accertamenti, ed il rapporto si intenderà risolto per volontà del lavoratore e senza applicazione della procedura telematica. Salvo la possibilità per il lavoratore di dimostrare l’impossibilità di comunicare il motivo dell’assenza, per causa di forza maggiore o per fatti imputabile al datore di lavoro. L’onere della prova grava sul dipendente.

Tutto lineare? La norma presenta alcune criticità. La prima riguarda il tempo necessario per considerare il lavoratore come dimissionario. Esso non è uguale per tutti i settori di attività in quanto i contratti collettivi non sono tutti uguali e per le assenze ingiustificate, foriere di licenziamento, prevedono un numero di giorni diversi (ad esempio, il CCNL metalmeccanici del settore industria parla di oltre 4 giorni). Se, per ipotesi, la contrattazione collettiva non dovesse dire nulla (opinione poco realistica) occorrerebbe attendere il trascorrere di un periodo superiore a 15 giorni da configurarsi come assenza ingiustificata.

La seconda questione riguarda il ruolo dell’Ispettorato del Lavoro.

La comunicazione dovrebbe portare alla verifica della situazione legata alle dimissioni. Essa appare, nella sostanza, una formalità priva di riscontri effettivi a meno che verranno date poi le indicazioni operative. Il controllo da parte dell’Ispettorato sembrerebbe porsi nei termini di una possibilità e non di un vero e proprio obbligo procedurale. Alla luce di ciò, cosa dovrebbe fare, se ritenesse di intervenire, l’organo di vigilanza?

Dovrebbe vigilare sul lavoratore, convocarlo per accertarsi che le dimissioni, non effettuate con la usuale procedura telematica, corrispondano al vero, cioè che egli stesso non abbia giustificato l’assenza dal posto di lavoro per causa imputabile solo a lui? E, nel caso in cui accertasse, soprattutto nelle piccolissime realtà che è rimasto a casa perché il datore di lavoro, a voce, gli ha detto di non presentarsi più in azienda, quale sarebbe l’iter? Dovrebbe consigliare al lavoratore di impugnare la risoluzione del rapporto come licenziamento orale, portando in giudizio le prove della responsabilità del datore? Dovrebbe consigliare al lavoratore di effettuare un tentativo di conciliazione sul licenziamento orale? Sarà l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, l’organo deputato a fornire le indicazioni operative alle proprie articolazioni periferiche territoriali?

 In buona sostanza, con le dimissioni per fatti concludenti,  il datore di lavoro non pagherà più il contributo ticket NASpI licenziamento (Legge Fornero);  il datore di lavoro potrà trattenere, all’atto della erogazione delle competenze di fine rapporto, l’indennità di mancato preavviso se, appunto, non è stato lavorato; il lavoratore, essendo dimissionario e non licenziato, non potrà fruire della  NASpI che spetta soltanto nella ipotesi in cui il lavoratore abbia perso il posto involontariamente, attraverso il recesso del datore di lavoro o nelle ipotesi di dimissioni equiparate dal legislatore al licenziamento. Ovviamente la disposizione precisa che il rapporto di lavoro non si intenderò risolto se il lavoratore dimostrerà di essere stato impossibilitato a comunicare il motivo della sua assenza per causa di forza maggiore o per fatti imputabili al datore di lavoro.

Durante A.M. Cristina




Inferno al deposito ENI di Calenzano

LUIGI MINOIA, SEGRETARIO GENERALE CONFIL: “ALTRE CINQUE VITTIME E L’ITALIA ASSISTE INERME ALL’ENNESIMA STRAGE ANNUNCIATA SUL LAVORO”

 

“Le parole non bastano più! I lavoratori avevano più volte denunciato la precarietà delle condizioni di lavoro nel deposito Eni di Calenzano dove si è consumata l’ennesima strage annunciata sul lavoro. Chiediamo che su questa tragedia venga fatta piena luce e si individuino le responsabilità”.

 

Così il segretario generale Confil, Confederazione Italiana Lavoratori, Luigi Minoia dopo l’esplosione costata la vita a cinque operai mentre altre 29 persone sono rimaste ferite, di cui due sono in gravissime condizioni.

 

“Al dolore e al cordoglio per le famiglie – dichiara Minoia – è doverosa la ricerca della verità. Ma a Governo e Parlamento tocca intervenire finalmente e concretamente per impedire questa inarrestabile catena di morti sul lavoro.”

 

“La Confil – prosegue Minoia – da tempo propone di utilizzare parte degli utili di bilancio dell’Inail, accantonati e addirittura investiti anche in titoli di stato, per finanziare l’assunzione di centinaia di ispettori mancanti per aumentare sensibilmente i controlli. L’avanzo record di bilancio dell’Inail di 41 miliardi di euro accumulati negli anni sul conto di Tesoreria dello stato e non spesi per la prevenzione, sono una tragica beffa per migliaia di vittime sul lavoro.”




Primo approccio alla riforma disabilità

Dal 1° gennaio 2025 ci sarà la prima applicazione delle importanti novità previste dallaRiforma disabilità. Verrà dato il via, appunto, alla sperimentazione che interesserà 9 province italiane nelle quali diventeranno operative le modalità introdotte, in particolare, dal Decreto Legislativo n.62 del 2024 che prevede nuove procedure in materia disabilità. Si tratta di una sperimentazione delle misure che diverranno poi attuative in tutta Italia dagennaio 2026. Allo scopo, nelle province che saranno interessate all’avvio, è in corso l’iter procedurale del sistema di accertamento dell’invalidità civile con l’introduzione del Progetto Vita.

Vediamo in sintesi quali sono le principali novità introdotte dal Decreto legislativo62/2024, che modificheranno le attuali procedure.
Ci sarà un certificato introduttivo da parte del medico certificatore.
Ci sarà una commissione che si chiamerà Unità Di Valutazione Di Base che sarà l’unica presso le 9 sedi sperimentali e poi, dal gennaio 2026, sarà solo l’INPS, su tutto il territorio nazionale, ad occuparsi del riconoscimento e dell’accertamento. Ci sarà un unico verbale che in realtà non si chiamerà più verbale, ma certificazione unica che sostituirà i precedenti verbali differenziati di invalidità civile, legge 104, sordità, cecità etc.

Quindi, un unico documento che il cittadino potrà utilizzare per accedere a tutte le prestazioni, anche fiscali. Si elimineranno molte rivedibilità ossia ci sarà solo un gruppo di patologie che richiederanno la rivedibilità. Verranno introdotti 4 livelli di intensità di sostegno (lieve, medio, elevato, molto elevato). Verrà utilizza il questionario WHODAS, così come prescritto dalla organizzazione mondiale sanità, per valutare l’aspetto qualitativo della persona.

La grande novità della riforma partirà dalla valutazione della persona con disabilità, che verrà appunto valutata in senso “olistico”cioè non più “parcellizzata” per quelle che sono le sue patologie ma valutata in quella che è invece la sua capacità di partecipare e di avere una vita di relazione. L’approccio adottato cambierà il paradigma e adotterà il sistema binario con riferimento all’ICD (Classificazione Internazionale delle Malattie) e all’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità, della Salute), il primo riferito all’ambito nosologico e il secondo all’ambito funzionale.

Sottolineando l’importanza della collaborazione con associazione e terzo settore, la sperimentazione servirà anche per eventualmente correggere, al termine della prova di un anno, criticità che dovessero emergere.

L’INPS sarà capofila delle novità previste dalla riforma, la quale non solo cambia l’aspetto normativo ma anche le procedure pratiche, con il coinvolgimento di istituzioni, associazioni di categoria, patronati.

Durante A.M. Cristina